Lucy e i “suoi primi quarant’anni”

 

Si dice che superati i quaranta il mondo cambi e si veda tutto da un’altra prospettiva. 41 anni fa veniva scoperto il fossile di ominide più famoso al mondo: una femmina che tutti conosciamo come Lucy. Il ritrovamento testimoniò per sempre il passaggio evolutivo dalle scimmie agli uomini, permettendo il riconoscimento dell’australopiteco e la datazione del corpo a 3,2 milioni di anni fa.

Per la prima volta veniva rinvenuto uno scheletro di ominide più vecchio di 3 milioni di anni!

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Ma cosa è cambiato nel panorama della paleontologia da 40 anni a questa parte?

Prima di questa scoperta gli scienziati potevano studiare solo su alcuni frammenti di ominidi così “attempati”, mentre con il ritrovamento di Lucy hanno avuto a disposizione uno scheletro quasi intero.

Questo ominide ha dato la possibilità agli scienziati di studiare una specie diversa: l’australopiteco afarensis, aprendo così il dibattito sull’evoluzione della specie umana.

In questi 40 anni la paleontologia ha compiuto enormi progressi, grazie ai successivi ritrovamenti e alle tecniche sempre più avanzate di indagine, è stato possibile risalire a diverse specie di australopitechi che hanno abitato l’Africa sviluppando tra loro caratteristiche diverse e scoprire come queste abbiano abitato la terra contemporaneamente.

Non è ancora chiaro, se l’australopiteco sia anche il predecessore della specie homo, ma annoverava sicuramente alcuni tratti e caratteristiche comuni: denti simili a quelli umani e un’alimentazione onnivora, conservando però il cranio ancora “scimmiesco” e dalle dimensioni piuttosto contenute.

Soltanto nel 2011, grazie al ritrovamento di parti del piede di un altro australopiteco datato nello stesso periodo di Lucy, i ricercatori hanno avuto la conferma della posizione eretta dell’ominide. La conformazione ad arco, simile al corrispondente osso del piede umano, permette la deambulazione in posizione eretta e la camminata ad ampie falcate. Il ritrovamento conferma l’ipotesi che gli Afarensis fossero parzialmente dei bipedi terrestri circa 1,2 milioni di anni prima del’Homo erectus, ma non che quest’ultimo discenda da loro.

La ricerca scientifica e le tecniche di indagine sul DNA antico hanno permesso agli scienziati di ricostruire con sempre maggiore precisione l’evoluzione delle specie viventi sulla terra, diventando supporto, ove possibile, delle tradizionali tecniche di analisi.

Grazie alla paleogenetica, la branchia della genetica che studia i DNA antichi, siamo in grado di conoscere gran parte della sequenza genica dei nostri antenati, di capire la provenienza di questi geni e di indagare malattie e caratteristiche ereditarie che in alcuni casi arrivano sino a noi.

Purtroppo però non è semplice recuperare DNA da un fossile, soprattutto perché i tessuti molli si degradano molto velocemente, a causa dei fattori chimici e biologici dell’ambiente esterno e in genere rimane utilizzabile solo quello eventualmente conservato all’interno dell’osso fossilizzato.

In Italia sono diversi i centri di ricerca attivi nel campo della paleogenetica, tra questi Tor Vergata. In un laboratorio all’avanguardia vengono estratti e analizzati i campioni di DNA ritrovati nei resti di uomini, animali e piante. Le ricerche effettuate sono di ampio respiro e hanno permesso di studiare l’incidenza delle intolleranze alimentari sulle popolazioni primitive o antiche, mettendole a confronto con quelle più frequenti ai tempi attuali.

A questo proposito e per approfondire meglio la ricerca paleogenetica, vogliamo riproporvi l’intervista con Gabriele Scorrano, ricercatore del Centro Dipartimentale di Antropologia Molecolare per lo studio del DNA antico dell’Università Roma Tor Vergata.

Spesso la conoscenza del passato ci aiuta a capire meglio il nostro presente.

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