Missione Planck, alla ricerca della radiazione cosmica di fondo

 

Un satellite dell’ESA al centro di una collaborazione internazionale dove l’Italia è protagonista e che, dopo quasi 25 anni di attività, e 7 dal lancio, sta per consegnare la sua legacy release

Lo sapevate che tutti i grandi telescopi in orbita intorno alla terra portano il nome di grandi scienziati del passato? Hubble e Herschel giusto per citarne due tra i più famosi. Anche a Max Planck è dedicato un satellite e un importante progetto di ricerca internazionale che nei primi mesi del 2017 consegnerà la sua legacy release.

Partita ufficialmente nel 1993 con l’approvazione del progetto, la missione ha attraversato le fasi di preparazione e operativa, iniziate con il lancio nel 2009 e terminate con lo spegnimento nel 2013. In questi mesi la conclusione, con l’elaborazione dei dati raccolti.

La missione Planck vede il coinvolgimento delle principali agenzie spaziali nazionali europee, dell’ESA e della Nasa, riunite con lo scopo di raccogliere dati sulla radiazione cosmica di fondo, ovvero la luce più antica che si può osservare. In questo modo gli scienziati potranno capire come era l’universo nelle sue fasi iniziali – quando ancora non esistevano le stelle e le galassie – e allo stesso tempo studiare come è oggi e cosa diventerà domani.

Molte delle più importanti agenzie spaziali nazionali di tutto il mondo hanno dato il loro contributo allo sviluppo della missione, questa è stata una missione che ha visto l’attiva collaborazione di numerosissimi paesi, dall’Italia alla Francia, dagli Usa al Canada. Per questo genere di progetti ogni paese mette a disposizione le migliori tecnologie e i ricercatori più preparati e anche l’Italia ha dato il suo contributo guidando uno dei due strumenti a bordo di Planck.

Planck è un satellite costruito per rilevare la frequenza delle microonde nello spazio profondo e per far questo sono stati messi a punto due strumenti: il Low Frequency Instrument (LFI) e l’High Frequency Instrument (HFI) che ogni giorno, per quasi 5 anni, hanno inviato le rilevazioni sulla terra, creando un enorme database che ha permesso di mappare l’universo.

Abbiamo fatto due chiacchiere con Paolo Natoli prof. dell’Università degli Studi di Ferrara e associato INFN, stretto collaboratore del Principal Investigator (una sorta di capo progetto) dello strumento LFI Nazzareno Mandolesi, ex INAF di Bologna e ora anche lui all’Università di Ferrara come prof. a contratto.

I dati che abbiamo raccolto sono un vero e proprio patrimonio per il mondo scientifico e per la collettività, ci permettono di guardare nello spazio profondo e vedere cosa è successo dalla nascita dell’universo. Ora, grazie all’ultima release di dati, dichiareremo ufficialmente conclusa la missione Planck, ma questo enorme bagaglio di conoscenze rimarrà a disposizione dei ricercatori, anche come punto di partenza per progettare nuove missioni. Noi stessi abbiamo proposto un nuovo progetto, il CORE – Cosmic Origin Explorer, che attraverso la misurazione ancora più accurata della radiazione di fondo, ci permetterà di saperne di più sul momento dell’origine dell’universo”.

In fondo la scienza è proprio questo: dare risposte ad alcune domande e permettere agli uomini di porsene delle nuove.

Planck è stato posizionato a circa 1,5 milioni di chilometri dalla Terra, in modo che tenendosi alle spalle il sistema Terra/Luna e il Sole, potesse guardare verso lo spazio profondo minimizzando le emissioni di disturbo. A me sembrano già distanze importanti, come si fa a controllare tutto dalla terra?

Paolo ride. “ Planck è stato lanciato verso un’orbita relativamente vicina: ci ha messo solo qualche mese ad arrivare nel punto prestabilito, il viaggio è stato facile. Sono altri i satelliti che hanno fatto della strada, basta pensare a Rosetta che ha dovuto sfruttare la spinta gravitazionale di altri pianeti per arrivare sulla cometa e ha affrontato un viaggio lungo oltre dieci anni. Planck è arrivato a destinazione “da solo”, grazie alla spinta del razzo che lo ha lanciato. Una volta in orbita, il satellite è controllato grazie a una serie di antenne Deep Space, dislocate su tutta la superficie della terra e fatte apposta per dialogare con gli apparecchi nello spazio profondo e soprattutto riceverne i dati”.

Ora che siamo alla fine anche della fase di analisi dei dati, cosa possiamo dire? Avete scoperto qualcosa di nuovo o avete confermato le teorie su cui vi siete basati per la missione?

Abbiamo osservato di cosa è fatto oggi l’universo e come è cambiato dal momento del big-bang. La materia che noi conosciamo, quella fatta di quark, è circa il 5%; il 25% è costituito da una particella che nessuno ha mai visto, la dark matter, la materia oscura. Il restante 70% dell’universo è composto da dark energy, l’energia che si pensa sia connessa al vuoto. Dal momento del big-bang l’universo è in continua espansione e più si espande e più si crea vuoto tra gli ammassi di materia. Questo vuoto ha un’energia infinitesimale, ma se consideriamo lo spazio occupato dalla materia all’inizio dell’universo (tutta concentrata in un punto) e la vastità che osserviamo oggi, anche intuitivamente possiamo capire come questa energia sia passata da zero a esserne la componente principale. Oggi non abbiamo un modello matematico che spieghi questo fenomeno in maniera “naturale” …noi e gli scienziati di tutto il mondo ci stiamo ancora lavorando!

Nei siti di ASI, INAF, INFN ho letto che sono stati più di 1000 gli scienziati che hanno partecipato a questa missione provenienti da tutto il mondo e di diverse Agenzie Spaziali ed Enti di Ricerca. Immagino non sia stato semplice coordinare tutto…

Lavorare tutti insieme è una sfida nella sfida, noi ricercatori siamo in primo luogo persone con le nostre simpatie e antipatie, manie, abitudini e schemi di lavoro precisi: lavorare insieme, qualsiasi sia l’ambito, non è mai banale. Ma la ricerca ha bisogno di confronto, di scambio di idee, di contaminazione tra diversi settori per poter progredire e portare nuove soluzioni e risultati”.

Il contributo dell’Italia in questo progetto è stato importante. La ricerca ha futuro nel nostro paese?

In Italia abbiamo situazioni di vera eccellenza, non è un caso che il sistema LFI sia stato progettato da enti di ricerca italiani e stranieri con l’Italia in ruolo guida, finanziato dall’ASI e altre agenzie nazionali e realizzato in gran parte nel nostro paese. La ricerca non è solo fatta da vecchi professori e libri polverosi, è un settore che se ben nutrito da giovani può dare grandi soddisfazioni anche in termini di sviluppo economico del Paese. Questo è un settore che può dare ancora molto, che si può ampliare anche a livello industriale offrendo opportunità per giovani italiani e stranieri. Dobbiamo far sapere ai ragazzi che cosa facciamo e quanto siamo bravi a farlo e che per chi ha voglia di studiare e impegnarsi le possibilità ci sono”.

In Italia esistono diverse aree di altissimo livello, dove industrie private ed enti di ricerca collaborano, sia progettando tecnologie all’avanguardia per le missioni spaziali in essere, che trasferendo quelle tecnologie nella vita di tutti i giorni. Gli esempi sono diversi, dall’area tuscolana dove già ora hanno sede i principali enti italiani e che vuole diventare il punto di riferimento per l’Europa, all’area tra Torino e Milano o quella di Trieste, dove collaborano proficuamente aziende e centri di ricerca.

Ok, viaggio facile, collaborazione internazionale, un sacco di dati e risultati. C’è qualcosa che è andato storto in questa missione?

Di storto, per fortuna, direi nulla; qualche intoppo, ma nulla di serio. Diciamo che non abbiamo capito tutto quello che speravamo: rimangono da scoprire, ad esempio, le onde gravitazionali primordiali, che ci possono svelare i dettagli dei primi istanti di vita dell’universo, quando un meccanismo a noi ancora misterioso, l’inflazione cosmica, ha posto i semi della nostra stessa esistenza, materializzando dal mondo microscopico quantistico quelle piccole increspature nella densità di energia che hanno, in miliardi di anni, formato le Galassie, e quindi le stelle”.

Chiuso questo importante capitolo della ricerca internazionale, ora non ci resta che aspettare che se ne apra uno nuovo. E che ci faccia ancora fantasticare con il naso all’insù rispondendo a qualche domanda su come è fatto l’universo e le sue stelle, anche perchè a una di queste noi dobbiamo l’energia che alimenta la vita.

Paolo Natoli, chi è costui?

Romano di nascita, cresce con la sua famiglia a Frascati.

E’ un “figlio d’arte”, suo papà era un fisico dell’INFN. Probabilmente questa combinazione di fattori, assieme alla congiunzione astrale favorevole di Plutone e Marte, fa si che il ragazzo si appassioni allo studio dell’universo.

Laureato con lode in Fisica nel 1996, consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Fisica nel 2000, dopo aver trascorso due anni alla University of California at Santa Barbara.

Uno dei rari casi di cervelli che tornano in Italia, lavora sino al 20102 all’Università di Roma “Tor Vergata” prima come assegnista e poi come ricercatore universitario presso la facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali di Tor Vergata.

Nel 2011 arriva a Ferrara, abbandonando i colli albani per la bruma ferrarese. Oggi è un (non tanto) giovane professore associato dell’Università di Ferrara, insegna cosmologia e relatività all’interno del corso di laurea magistrale in Fisica presso il Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra. Si occupa appunto di radiazione cosmica di fondo, ma non disdegna altri strumenti di indagine cosmologica. Partecipa, tra l’altro, alla missione Euclid, che si propone di studiare l’energia oscura osservando la struttura su grande scala dell’Universo.

 

Per approfondimenti

http://www.esa.int/Our_Activities/Space_Science/Planck

http://www.cosmos.esa.int/web/planck

http://www.asi.it/it/attivita/esplorare-lo-spazio/cosmologia-e-fisica-fondamentale/planck

http://www.iasfbo.inaf.it/?option=com_content&task=view&id=16&Itemid=49

http://docente.unife.it/paolo.natoli/

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